La solitudine non è l’isolamento volontario come scelta personale o come stile di vita.
E’ una condizione di isolamento data dalla mancanza di una rete sociale di supporto adeguato e dalla incapacità di comunicazione.
Ci si isola per senso di emarginazione, per disagio personale, per diversità.
In tutti questi casi il fattore responsabile è la mancanza del dialogo.
Comunicare con gli altri ti apre la mente, ti allarga i contatti, oltrepassa la tua diversità e ti rende libero di poter scegliere di dedicare del tempo ed un luogo soltanto per te stesso.
Ma quando questa scelta non è spontanea allora si sente il peso del disagio, della solitudine e della indifferenza altrui.
Non sappiamo più condividere.
La necessità di avere un aiuto ti costringere a rivolgere la tua richiesta ad un altro, ma la comunicazione non è solo aver bisogno di aiuto e dell’ascolto, è sopratutto condividere.
Il dialogo non può essere un monologo unilaterale che puoi iniziare e finire quando vuoi, quando parli all’altro lo devi sentire, lo devi percepire, i suoi pensieri ed il suo interesse ti arrivano anche senza le parole.
Il dialogo è sempre condivisione.
Non ci si può aspettare che gli altri ci ascoltino se noi stessi non sappiamo ascoltare gli altri e non sappiamo parlare con loro e di loro.
Non ci si può aspettare un aiuto da parte di coloro che non riescono a mettersi in contatto con noi e che viaggiano su una diversa frequenza.
Se non si mette il prossimo in condizione di sapere chi è l’interlocutore, cosa pensa e come vive e quali sono i suoi bisogni e le sue necessità, come può interloquire e condividere?
Non mi riferisco alle istituzioni, che nei fatti sono sempre più distanti dal cittadino, parlo delle persone, della gente, del vivere sociale, dello stare con gli altri e del dialogare.
Non c’è bisogno di fare comunicati stampa quotidiani per aprirci al prossimo, però il prossimo lo dobbiamo notare, lo dobbiamo salutare, gli dobbiamo un sorriso.
Nelle grandi città questa condizione è ancora più palese, e mi stupisco di quanto la gente affollata si disinteressa del prossimo che calpesta e con cui si scontra.
Ognuno è ignaro dell’altro, tutti non vedono nessuno.
Per compensare la necessità dell’essere umano nel sentirsi parte di una società o di un gruppo intervengono i social network che illudono, creano legami fittizi, spersonalizzano l’identità del singolo e rendono l’uomo ancora più solo ed isolato.
Perché avere tanti amici su facebook non corrisponde all’essere sociale e socievole, non significa far parte di una comunità.
La società è fatta di rapporti umani, i social di contatti mediatici.
Sui social nessun rapporto esiste veramente, tutto è fantasia ed immaginazione, ogni esistenza è più bella della realtà, non esistono difetti e disagi, solo doti e virtù.
I social danno proprio la possibilità di produrre una rete interrelazionale fatta di post tutt’al più condivisi, dove anche il messaggio può diventare qualcosa di troppo personale e di privato.
Il messaggio ancora invece pretende una forma di comunicazione seppur embrionale e latente mentre il post riesce a connettersi col mondo senza costringerti a dedicarti all’altro.
Nella rete fittizia di internet si costruiscono legami affettivi che con l’affetto ed il rapporto umano non hanno nulla a che vedere.
Ho avuto la conferma di questo proprio oggi, quando mi è capitato di ricevere un messaggio di benvenuto diretto come risposta ad un mio tweet.
E’ stata una sorpresa in quanto insolita.
Ma perché la cosa mi ha tanto sorpresa?
Perché non siamo più abituati a parlare con gli altri, non siamo più abituati a concedere agli altri un attimo di attenzione disinteressata, un momento di ascolto che non pretende nulla in cambio.
Eppure è semplice, basta un saluto, un sorriso, una parola non richiesta.