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26/07/2018La combustione umana spontanea è ad oggi un mistero che non trova risposta.
Si aggirano tra 100 e 200 i presunti casi di autocombustione in cui delle persone hanno improvvisamente preso fuoco, senza apparenti fonti esterne di innesco, e sono state ritrovate trasformate quasi totalmente in cenere, con solo alcune parti, generalmente degli arti inferiori, rimaste intatte.
Questi episodi di autocombustione umana, detti SHC, dall’inglese Spontaneous Human Combustion, si caratterizzano anche per la quasi assenza di danni sugli oggetti circostanti o sulle pareti della stanza in cui si trova la vittima.
La combustione umana
La combustione spontanea è un fenomeno che fa incendiare improvvisamente un corpo senza essere acceso da una fonte esterna. L’argomento è oggetto di numerose teorie e studi scientifici, ma attualmente la scienza non sembra essere d’accordo sull’idea che un corpo possa prendere fuoco dal nulla.
Il più recente di questi casi di autocombustione sembra essersi verificato nel dicembre 2010, quando un uomo di 76 anni, Michael Faherty, è morto bruciato sul pavimento del suo soggiorno in Irlanda. Un anno dopo, un medico legale ha stabilito ufficialmente che la dipartita del soggetto fosse stata causata proprio da una combustione spontanea.
Mentre la combustione umana è plausibile e possibile, l’idea che avvenga spontaneamente è un termine improprio per la scienza: “Sì, i corpi delle persone bruciano, ma non c’è assolutamente alcuna prova che avvenga come combustione spontanea”. I colpevoli più comuni sono le sigarette accese (vietate per sempre in Nuova Zelanda), le lampade o le candele. Ma non è sempre così.
Gli scienziati hanno cercato di spiegare questo fenomeno dell’autocombustione con quello che hanno chiamato “effetto stoppino”: solitamente le vittime sono obese e sono presenti fonti di calore esterne (appunto come candele e sigarette) e quando i vestiti iniziano a bruciare, il grasso presente nel corpo del soggetto inizierebbe a liquefarsi alimentando la fiamma.
Ma ci sono anche molti casi di autocombustione a cui esperti, la scienza e la medicina non hanno saputo dare una spiegazione certa.
Il caso Mary Reeser
Un po’ di cenere, qualche osso affumicato e un inquietante piede intatto è tutto ciò che rimaneva della signora Mary Reeser il 2 luglio 1951, il più famoso caso di cosiddetta combustione umana spontanea.
Quel giorno, a St. Petersburg, in Florida, giunse un telegramma per la sessantasettenne signora Reeser. Lo ritirò la padrona di casa che poi salì i gradini per consegnarlo alla sua inquilina.
Nonostante i ripetuti richiami la signora Reeser non rispondeva: eppure, nessuno l’aveva vista uscire quella mattina. Preoccupata, la padrona di casa chiese aiuto a due imbianchini che lavoravano in strada. Quando gli uomini riuscirono ad aprire la porta dell’appartamento della signora Reeser furono investiti da una folata di fumo. Una volta entrati, videro sul pavimento i macabri resti della donna, un piede sinistro con tanto di pantofola e un po’ di cenere.
La polizia, che arrivò poco dopo, notò che il soffitto era coperto di una sostanza grassa, oleosa, che si estendeva sulle pareti fino a circa un metro dal pavimento. Al di sotto di questa linea creata dal fumo, ben poco era stato danneggiato. Al di sopra, il calore aveva liquefatto l’interruttore della luce, un bicchiere di plastica e una scatola di candele.
Nei giorni seguenti i giornali fecero a gara per cercare di spiegare il misterioso incidente: la donna era stata uccisa da un pazzo con il lanciafiamme, aveva ingerito dell’esplosivo, era stata colpita da un fulmine globulare e via dicendo.
Finché qualcuno suggerì che si fosse trattato di un caso di “combustione umana spontanea”. Secondo alcuni, infatti, un’improvvisa (quanto misteriosa) reazione di sostanze chimiche all’interno del corpo umano potrebbe essere responsabile per questi strani incendi.
Altri casi di combustione
Sfortunata protagonista del primo caso di combustione umana documentato fu Nicole Millet, nel 1725. Il marito fu accusato di averla uccisa e di aver tentato di bruciarne il corpo nel caminetto di casa. La donna aveva fama di alcolista senza speranza e tutti erano convinti che questo fosse il movente dell’omicida, un uomo esasperato da anni di litigi che alla fine aveva perso la pazienza.
È il 14 marzo del 1731 quando la contessa Cornelia Zangheri Bandi, nonna del futuro papa Pio VI, si ritira nelle sue stanze. La mattina seguente, la sua dama di compagnia bussa alla porta per svegliarla. Non ricevendo risposta, decide di entrare.
La prima cosa che la colpisce è il denso fumo che riempie la camera unito a un odore sgradevole e soffocante, mentre la donna raggiunge la finestra rischia più volte di scivolare sul pavimento unto. Quando poi finalmente la luce del pieno mattino invade la stanza, la scena che le si presenta davanti agli occhi è raccapricciante.
Non molto distante da dove si trova, accanto al letto sfatto, ecco le gambe della contessa intatte fino al ginocchio e con ancora indosso le calze. In mezzo a queste, la testa di lei per metà carbonizzata e tre dita annerite su un mucchietto di cenere scura. Dal soffitto gronda qualcosa che assomiglia a grasso fuso, lo stesso grasso che imbratta anche il pavimento.
In ordine temporale c’è il caso della signora Mary Reeser del 1951 già narrato.
Casi irrisolti
Nel 1964 Helen Conway, un’abitante di Delaware County, Pennsylvania, si aggiunse alla lista. L’8 novembre i suoi resti furono rinvenuti nella camera da letto. Il fatto che fosse una fumatrice con la pessima abitudine di spegnere le sigarette dove capitava (la stanza era piena di piccole bruciature) portò la polizia a chiudere velocemente il caso.
La nipote della donna era sicura che non si trattasse di un incidente. La ragazza era entrata nella stanza per salutare la nonna; quindi, era uscita per poi tornare subito indietro, incuriosita da uno strano rumore. Riaperta la porta aveva visto la signora Conway che bruciava.
Tra la sua telefonata ai pompieri e il loro intervento erano passati non meno di sei minuti e non più di venti. Troppo pochi perché potesse ridursi in cenere.
Nel 1966, a Coudersport, in Pennsylvania, il Dottor Irving Bentley, 92 anni, entrò in bagno per l’ultima volta. Il giorno dopo i suoi resti furono ritrovati accanto alla tazza del water. La zona dell’incendio era ben circoscritta, il fuoco non aveva danneggiato la tazza che si trovava a poca distanza. Un piede dell’uomo era ancora intatto.
Nel 1980 a Gwent, nel Galles, John Heymer, agente della scientifica, fu chiamato a investigare su uno strano caso. La vittima si chiamava Henry Thomas, settantadue anni, e di lui erano rimasti i due piedi coperti dai calzini e un cranio parzialmente distrutto dal fuoco. Il resto era cenere.
La poltrona era bruciata e il tappeto era carbonizzato solo nella parte superiore. Finestre e porte della casa avevano guarnizioni contro il freddo che in pratica avevano sigillato l’ambiente. Una volta consumato l’ossigeno presente, il fuoco avrebbe dovuto spegnersi. Heymer si domandava come mai il corpo avesse continuato a bruciare fino a consumarsi quasi interamente.
Le vecchie teorie
Le antiche teorie sull’autocombustione vedevano in stretta relazione alcol e incendio. In pratica, un ubriaco rischiava di prendere fuoco in ogni momento, evenienza non del tutto improbabile, a patto che il soggetto avesse ingerito una quantità esorbitante di alcol. Ma in quel caso sarebbe finito in coma etilico molto prima di andare in autocombustione.
Oggi si sa che l’unica vera colpa dell’alcol è di alterare la mente: chi beve è meno attento nel ‘maneggiare’ il fuoco (accendini, sigarette ecc.) e più lento a reagire quando perde il controllo su di esso. Ecco l’unico modo in cui si possono mettere in relazione ubriachezza e fiamme.
Ma questo non poteva spiegare tutti i casi di combustione umana spontanea. Scartato l’alcol, si pensò che tutto dipendesse dal grasso corporeo. E’ vero che molte delle vittime erano sovrappeso, ma tante altre erano magre.
Fu tirata in ballo anche una forma particolarmente cruda di intervento divino per punire i peccatori. Inutile commentare. Ugualmente inaccettabili le congetture su regimi alimentari carenti in grado di spingere l’apparato digerente a ribellarsi tramite reazioni chimiche mortali. Le cellule del corpo impazziscono e attivano una reazione a catena. Possibile? I medici dicono di no: il fisico può dare delle noie, se trattato male, ma non è in grado di autodistruggersi con quelle modalità.
E che dire dei vestiti? Colpa loro dell’autocombustione? Le fibre di alcuni tessuti, a contatto con la pelle, agirebbero da ‘miccia’ a specifici cocktail chimici del corpo. Se pensiamo alle scintille che sprigionano certi capi d’abbigliamento quando ce li sfiliamo (la fastidiosissima elettricità statica), non è difficile pensare che questa potrebbe essere una spiegazione plausibile.
Esistono persone che invece di scaricare l’elettricità statica sarebbero in grado di trattenerla e accumularla fino a esplodere? Oppure la carica elettrica è da imputare a fulmini globulari?
Questo tipo di fulmine (ancora poco conosciuto) si presenta come una massa di energia luminosa dal comportamento imprevedibile. Può attraversare una casa entrando da una finestra e uscendo dall’altra senza ferire gli esseri umani, ma può anche scaricarsi sulla prima massa solida che incontra.
Se tale massa solida fosse un uomo già sovraccarico di elettricità statica, potrebbe svilupparsi un intenso calore e lo sventurato si ritroverebbe avvolto dalle fiamme. Nessuno sa per certo se questo possa avvenire, l’unica cosa sicura è che i fulmini globulari celano ancora molti segreti.
Un corpo, per bruciare interamente, ha bisogno di 1.300 gradi centigradi. Questa è la temperatura degli odierni forni crematori per distruggere un cadavere nel giro di un’ora. E anche in quel caso non si riesce mai a incenerirlo del tutto. Le ossa vengono raccolte e frantumate per poi finire nell’urna funebre.
Un normale incendio domestico raggiunge, in media, i 300 gradi. Bisogna quindi pensare che nei casi fin qui esposti le vittime siano state avvolte da un calore enormemente superiore a quello dei forni crematori.
Se così fosse, anche le abitazioni sarebbero andate in fumo, come la mobilia, eppure intorno alle vittime di autocombustione tutto era intatto, a parte qualche macchia di fumo o di grasso.
Molti addetti ai forni crematori sono stati chiamati ad analizzare le macabre foto. Tutti hanno ammesso che anche per loro sarebbe difficile ridurre un corpo in cenere in così breve tempo e che la temperatura necessaria a completare tale procedura non può svilupparsi in comuni spazi come il salotto o il bagno.
L’effetto stoppino
Molti studiosi che negano l’esistenza della combustione umana spontanea parlano del cosiddetto ‘Effetto stoppino’. Strati di vestiti facilmente infiammabili potrebbero, nel caso di un uomo obeso, fare appunto da stoppino e favorire la combustione del grasso corporeo, proprio come fosse cera di candela.
Le gambe, provviste di una quantità inferiore di grasso, sono più lente a bruciare. Ecco perché, la maggior parte delle volte, non vengono toccate dalle fiamme. Per illustrare il concetto al pubblico, nel 1999 la BBC si occupò del mistero di Helen Conway, catalogandolo come un caso dovuto proprio all’effetto stoppino.
I pochi minuti trascorsi tra l’inizio dell’incendio e l’arrivo dei pompieri non erano sufficienti perché un corpo finisse carbonizzato, ma nessuno prese in considerazione questo particolare. Oltre al caso Conway il documentario comprendeva un filmato molto particolare: vi si vedeva un maiale morto che bruciava.
Si trattava dell’esperimento ideato e condotto dal Dottor John de Haan dell’istituto di Criminologia della California. De Haan avvolse il suino in una coperta a simulare un essere umano vestito, versò una piccola quantità di benzina sul tessuto e diede fuoco al fagotto creando la combustione desiderata.
Assieme al Dottor de Haan c’erano scienziati, studiosi, medici, vigili del fuoco e sostenitori della combustione umana spontanea. Era stato scelto un maiale perché il suo grasso è simile a quello degli esseri umani. Dopo sette ore di costante bruciare il maiale non era ancora distrutto completamente.
Il test servì per dimostrare che un uomo poteva consumarsi a poco a poco e ridursi nelle condizioni in cui molte delle vittime erano state trovate. In sostanza era solo una questione di tempo.
Occorreva un agente scatenante (sigaretta, candela) e un po’ di carburante per portare avanti l’incendio. Anche del profumo, che sappiamo contenere una certa quantità d’alcol, poteva servire a quello scopo. Interessante l’esperimento, un po’ meno le conclusioni.
Difficile immaginare le vittime che rimangono ferme come pezzi di legno mentre bruciano. Dobbiamo forse dedurre che quelle persone fossero già morte prima dell’incendio? Tutte quante? Impossibile. E perchè nessuno le ha sentite urlare durante la combustione? E che dire di Helen Conway, ridotta in polvere non in sette ore, ma in pochi minuti?
Il caso Bailey
La scienza si ostina a dire che non si può prende fuoco senza ragione, ma non fornisce tutte le risposte del caso. Ma i neuroni cerebrali di chi si occupa di fatti insoliti rifiutano di stazionare nei recinti costruiti dagli scettici, soprattutto quando salta fuori la loro parola preferita: ‘testimoni’.
Parliamo di ciò che accadde il 13 settembre 1967 a Lambeth, nel sud di Londra. Alcune persone videro una luce strana provenire dall’interno di una casa diroccata e chiamarono i vigili del fuoco.
Il comandante John Stacey entrò nell’edificio con i suoi uomini e scoprì che la luce strana altro non era che il cadavere in fiamme del vagabondo Robert Bailey, conosciuto in tutta la cittadina.
Si dovette scaricare più di un estintore per spegnere la caparbia fiamma blu che fuoriusciva dallo squarcio in mezzo all’addome dell’uomo. Sembrava essersi trasformato in una lampada a gas.
Aveva i denti conficcati nella balaustra della scala e questo fece pensare che fosse vivo quando le fiamme si erano sprigionate dal suo stesso corpo. I suoi vestiti erano integri, a eccezione della zona attorno all’addome.
L’edificio, che stava per essere demolito, non era dotato né di gas né di elettricità. Attorno al cadavere di Robert non c’erano altri materiali che potessero giustificarne la morte. La competente squadra di pompieri aveva dovuto faticare parecchio per avere ragione di quel tipo di fiamma. John rimase molto impressionato dall’episodio.
La testimonianza di un vigile del fuoco è preziosa, perché nessuno come un esperto di roghi può confermare o meno la singolarità di un incendio. Sulla base di ciò che videro i suoi occhi, John Stacey escluse all’istante l’effetto stoppino. La fiamma era di un blu brillante, ben visibile dall’esterno e quindi diversa da quella meno vistosa dell’effetto stoppino.
Non poteva che trattarsi di un caso di autocombustione.
Il caso Saffin
Nel 1982 a Edmonton, una località nei pressi di Londra, Jeannie Saffin, una donna di sessanta anni con problemi mentali, prese fuoco davanti agli occhi del padre mentre sedeva al tavolo della cucina.
Le fiamme le avvolgevano testa e mani, ma lei non sembrava soffrirne. Atterrito, l’uomo la spinse verso il lavandino e tentò disperatamente di spegnere le fiamme, gridando il nome del genero che arrivò giusto in tempo per assistere a una scena da incubo.
La testa e il torace dell’anziana ardevano come legna. In seguito, disse di aver sentito provenire dalla bocca aperta della povera Jeannie una specie di basso ruggito, lo stesso rumore che fa il camino quando lavora a pieno regime.
Nonostante l’intervento dei due parenti, Jeannie morì e sul certificato di morte fu scritto che il decesso era dovuto a un incidente domestico. Seppur perplesso, il coroner preferì archiviare il caso in questo modo per non mettere a repentaglio la propria reputazione esponendo teorie giudicate assurde dalla medicina moderna.
Il padre e il genero di Jeannie continuarono a sostenere che non si era trattato di incidente, ma di qualcosa che li aveva spaventati a morte entrambi e che mai avrebbero dimenticato.
Il caso Phillips
Nel 1998 si registrò un altro decesso misterioso. Lo senario era Sidney, in Australia. Mentre sedeva nell’auto di sua figlia, lato passeggero, Agnes Phillips, ottantadue anni, prese fuoco.
La figlia, Jackie Park, l’aveva appena prelevata dalla casa di riposo per portarla a fare un giro. Parcheggiata la macchina, Jackie si era allontanata per entrare in un negozio.
Pochi istanti dopo vide del fumo uscire dai finestrini. Lei e altri passanti estrassero l’anziana dall’auto e riuscirono a soffocare le fiamme dopo alcuni interminabili minuti. Agnes venne ricoverata con ustioni gravi su gran parte del corpo e morì una settimana dopo.
Perché la signora Phillis si incendiò come se qualcuno le avesse gettato addosso della benzina? Nessuno riuscì a stabilirlo, nemmeno l’ispettore dei vigili del fuoco, Donald Walshe, che si occupò del caso della combustione.
L’auto non era in moto, non c’erano liquidi infiammabili nell’abitacolo, non c’erano fili mal collegati che avrebbero potuto causare un corto circuito, né lei né sua figlia erano fumatrici e la temperatura esterna, il giorno della tragedia, era mite.
Prima di lei altre due donne, Olga Worth Stephen (1964, Dallas, Texas) e Jeanna Winchester (1980, Jacksonville, Florida) avevano preso fuoco in circostanze analoghe. La seconda era sopravvissuta, con il venti per cento del corpo ustionato.
L’incidente le aveva lasciato fastidiosi problemi di motilità riguardanti braccia, collo e spalle, ma, nonostante ciò, Jeanna si diceva felice di essere ancora viva. Non ricordava nulla della combustione.
Insomma, i fenomeni noti come combustione umana spontanea, che è stata riconosciuta da molte autorità, rimangono tutt’oggi inspiegabili. Resta davvero un mistero che persino la scienza non ha ancora spiegato.
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