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11/08/2018JonBenèt Ramsey è stata la vittima di un brutale omicidio. E non solo.
La vita di JonBenèt non era quella di una bambina serena. Invece di giocare, di andare a scuola, di avere delle amichette, di passare il suo tempo comportandosi e vivendo da bambina, la sua vita era usata, per non dire abusata, dai genitori, soprattutto dalla madre, per riscattare ciò che lei non era mai riuscita a diventare: la miss di tutte le passerelle.
Il mondo della piccola era fatto di dieta, di trucchi e parrucchi, di studi di postura, di ballo, interventi sul suo piccolo corpo per renderla più perfetta di quello che già era, il tutto per essere una miss da primato.
Quello che tutti si sono chiesti in questa vicenda è: se forse sua madre le avesse permesso di essere una bambina normale sarebbe ancora viva?
JonBenèt Ramsey
JonBenèt Ramsey nacque ad Atlanta (USA) il 6 agosto 1990 da una famiglia molto benestante: suo padre John era un facoltoso uomo d’affari e sua madre Patricia, ex reginetta di bellezza ed ex Miss Virginia, era una giornalista.
JonBenèt aveva anche un fratello più grande, Burke. La famiglia Ramsey rappresentava dunque il prototipo della famiglia americana perfetta: rispettata, amata da tutti e ben voluta dalla comunità di cui faceva parte.
La piccola JonBenèt sin dalla tenera età, grazie alle conoscenze della madre ma anche e soprattutto grazie alla sua straordinaria e precoce bellezza, partecipa a numerosi concorsi e spettacoli divenendo ben presto una delle reginette di bellezza americane più famose e amate.
Pare però che la piccola fosse soggetta a un forte stress per quella sua vita tanto frenetica, tanto che la notte spesso bagnava il letto.
Questo apparente mondo dorato fatto di viaggi, abiti luccicanti, sfilate e concorsi di bellezza, tuttavia, è destinato a crollare tragicamente la notte del 25 dicembre 1996 quando la piccola aveva solo 6 anni.
Il falso rapimento
Il 25 dicembre 1996 la famiglia Ramsey rientrò a casa alle 22: JonBenet e il fratello maggiore Burke furono subito messi a letto. Alle 5.30 del giorno successivo Patsy si svegliò, trovando il letto di JonBenet bagnato, come spesso accadeva, ma vuoto.
Sulle scale la donna trovò una lettera in cui si annunciava il rapimento della bimba e si chiedeva un riscatto.
Trova la lettera sulle scale che collegano i piani superiori alla cucina, una lunga lettera di riscatto nella quale una non precisata fazione straniera dichiarava di aver rapito la piccola JonBenèt e ordinava alla famiglia Ramsey di preparare 118.000 mila dollari come riscatto per il rapimento della piccola.
La lettera esordiva con la frase: “Siamo un gruppo di persone che rappresenta una piccola fazione straniera”. Inoltre, alternava minacce di morte, in particolare qualora i Ramsey avessero chiamato la polizia, a espressioni più miti come “la consegna sarà faticosa per cui le consiglio di essere riposato” rivolte al papà di JonBenet.
Per ben tre pagine i rapitori avevano imperversato con citazioni da film come “Speed” e “Ransom”, chiedendo un’insolita cifra: 118mila dollari, esattamente quanto papà John aveva ricevuto come bonus aziendale natalizio.
La famiglia allertò il 911 e subito partirono le indagini sul presunto rapimento; intorno alle 13:00 dello stesso giorno il detective della polizia Linda Arndt chiese a John Ramsey di poter ispezionare la casa in cerca di qualche indizio o traccia che potesse aiutare le indagini.
L’ispezione iniziò dal seminterrato e proseguì per il bagno, una stanza dedicata agli hobby e altre camere adibite alla lavanderia. Da ultima fu ispezionata anche la cantina di casa Ramsey ed è qui che i detective fecero una scoperta terribile e agghiacciante: sul pavimento, avvolto in una copertina bianca, giaceva il corpo esanime della piccola JonBenèt.
Le indagini
La bambina indossava ancora il pigiama ed era riversa supina, con le braccia verso l’alto al di sopra della testa. La bocca della bambina era coperta da un pezzetto di nastro adesivo mentre il collo e i polsi erano legati con una corda di nylon, lasciata molto allentata.
Il manico rotto di un pennello lungo 10 cm era stato usato per avvolgervi attorno un capo della corda di nylon per formare una garrota. John Ramsey in preda alla disperazione e al panico, rimosse il nastro adesivo dalla bocca della bambina e la trasportò al piano superiore, nel vano tentativo di rianimarla.
Constatatone il decesso si decise di spostare ancora una volta il corpo della piccola JonBenèt il quale fu adagiato nel soggiorno, accanto all’albero di Natale ormai spento.
Sin dall’inizio le indagini sull’efferato omicidio furono condotte male e in maniera del tutto grossolana poiché, dal momento della scoperta del cadavere della bambina, la casa fu invasa da familiari, poliziotti e vicini e solo alle 13:50 l’abitazione fu dichiarata scena del crimine e posta sotto sequestro.
Il via vai di gente, i continui spostamenti del corpo della piccola vittima e la confusione generale che regnava quel mattino del 26 dicembre pregiudicarono irrimediabilmente la scena del crimine e la ricostruzione dell’omicidio.
L’autopsia
Gli esami autoptici effettuati sul corpo di JonBenèt furono eseguiti il giorno dopo la scoperta dell’omicidio e i risultati furono agghiaccianti: si scoprì che la bambina era morta per strangolamento e che presentava una profonda frattura del cranio di circa 20 cm, causata probabilmente da un corpo contundente smussato.
Si scoprì che la garrota (creta da una persona che sicuramente aveva esperienza in questo genere di nodi) era stata ricavata da un pezzo di corda avvolta attorno al manico rotto di un pennello.
Si scoprì inoltre che lo strangolamento era avvenuto da dietro. Furono trovate delle abrasioni alla parte posteriore del dorso e alle gambe, che vennero attribuite a un probabile trascinamento del corpo, circostanza che fa pensare che la piccola non fosse stata uccisa nella cantina ma altrove.
Il nastro adesivo con cui JonBenèt era stata imbavagliata appariva intonso, suggerendo che fosse stato applicato post-mortem. Anche se non c’erano prove evidenti di violenza sessuale questa non poteva tuttavia essere esclusa poiché erano emersi durante l’autopsia segni ambigui di probabili abusi mai del tutto chiariti.
La causa ufficiale della morte fu asfissia, causata dallo strangolamento e associata ad un trauma cranico cerebrale.
I sospetti
Sin dall’inizio delle indagini i sospetti caddero sul nucleo familiare Ramsey, sulla madre Patricia, il padre John, ma anche sul fratello Burke che all’epoca aveva 9 anni.
La polizia statunitense difatti per molto tempo sostenne l’ipotesi che Patsy Ramsey, in un impeto di rabbia, dopo che la bimba aveva bagnato nuovamente il letto, (JoBenet soffriva infatti di enuresi notturna), l’avesse ferita gravemente la notte stessa e l’avesse poi uccisa in un secondo momento, simulando il rapimento con la complicità del marito.
Le loro versioni non combaciavano coi fatti e con le prove raccolte, troppe bugie vennero raccontate dai familiari, troppe per non far sospettare che stessero nascondendo qualcosa. E poi perchè inscenare un finto rapimento? Cosa avevano da nascondere?
Vi era un elemento ulteriore: nel novembre 1997 gli esperti grafologi, in seguito a diverse perizie calligrafiche, affermarono che era stata proprio Patsy Ramsey a scrivere la richiesta di riscatto.
Un’altra possibile ipotesi investigativa è che John Ramsey avesse abusato sessualmente di sua figlia, uccidendola per coprire il misfatto. Per un certo periodo fu sospettato dell’assassinio anche Burke, fratello di JoBennet (che all’epoca dei fatti aveva 9 anni), in quanto si sospettava che avesse ucciso la sorellina per motivi di gelosia.
Tutti questi sospetti, caduti nel vuoto per mancanza di prove concrete, ruotavano intorno a una serie di constatazioni: l’omicidio era avvenuto in casa, non c’erano segni di effrazione su nessuna delle porte o finestre e inoltre alcuni vicini dichiararono di aver sentito tra la notte del 25 e 26 dicembre un urlo di bambino, circostanza che i genitori di JonBenèt hanno sempre negato tassativamente.
L’unica certezza in questa terribile storia è che le indagini furono svolte con una imperizia quasi imbarazzante da parte della polizia locale tanto che, a causa delle prove contraddittorie, il Grand Jury non riuscì mai a incriminare nè i Ramsey nè chiunque altro per l’omicidio di JonBenét.
Altre piste
Decisamente più plausibile si è rivelata in un certo senso la pista della pedofilia, era stata trovata una finestra rotta in cantina che avrebbe potuto rendere facile l’accesso a un estraneo.
Tra i vari sospettati, il più credibile è stato a lungo John Mark Karr, ex insegnante arrestato in Thailandia dopo che negli Usa era già stato accusato di pedopornografia.
Karr arrivò anche a confessare di aver ucciso JonBenet durante un gioco erotico andato storto: perizia calligrafica e confronto del Dna lo scagionarono però.
Le indagini infine hanno coinvolto anche l’ex governante dei Ramsey e un amico di famiglia che si travestiva da Babbo Natale per conto di esercizi commerciali. In entrambi i casi l’indagine si è rivelata essere un buco nell’acqua.
Furono tutti scagionati perché il loro Dna non combaciava con quello rinvenuto nelle mutandine contenitive che portava la bambina.
Gary Oliva
Gary Oliva è un molestatore sessuale del Colorado che ha una lunga storia di abusi sessuali su minori, che ha ucciso dei bambini e che pratica il cannibalismo (Sindrome di Renfield) e che viveva proprio nei paraggi della casa di JonBenét Ramsey a Boulder al momento dell’omicidio della piccola.
Nel 2019 sono giunte nelle mani dell’autorità delle lettere inviate dal criminale pedofilo.
Mentre si trovava in carcere per abusi su minori, ha ammesso la sua colpevolezza in una serie di lettere indirizzata ad un vecchio compagno di scuola e pubblicista musicale Michael Vail: «Non ho mai amato nessuno come ho amato JonBenét».
Le lettere incendiarie ottenute dal Daily Mail sono apparse in un rapporto del 10 gennaio 2019 sul tabloid britannico che accusava Gary Oliva di aver confessato di aver ucciso Ramsey.
Gary Oliva scrive in esse: “Non ho mai amato nessuno come ho fatto con JonBenét, eppure l’ho lasciata scivolare e la sua testa è stata spaccata a metà e l’ho vista morire. È stato un incidente. Per favore credimi. Non era come gli altri ragazzi.”
“Sì, l’ho uccisa io JonBenét ma non ho avuto il tempo di mangiarla”. “Ero affascinato da quella principessina, la adoravo”. Poi, continua: “Non ho mai amato nessuno come JonBenét, eppure l’ho lasciata scivolare e la sua testa si è schiantata a metà e l’ho vista morire. È però stato un incidente”.
Il pedofilo descrive il proprio sentimento nei confronti della piccola: “JonBenét mi ha completamente cambiato e rimosso tutto il male da me. Solo uno sguardo al suo bel viso, alla sua bella pelle luminosa e al suo divino corpo, dico divino”.
Queste confessioni potrebbero essere la prova necessaria per incriminare, finalmente, Oliva del reato di omicidio anche se le verifiche sul Dna non ha dato riscontri certi.
La portavoce della polizia, Laurie Ogden, ha dichiarato a DailyMailTV: “Il dipartimento di polizia di Boulder è a conoscenza e ha indagato sul potenziale coinvolgimento di Mr. Oliva in questo caso. Abbiamo inoltrato le informazioni aggiuntive fornite agli investigatori. Non faremo commenti su alcuna azione o stato di questa indagine”.
Michael Vail che ha detto al Daily Mail TV che Oliva gli ha fatto un commento inquietante la notte dell’omicidio: I miei sospetti sono iniziati quando Gary mi ha chiamato a tarda notte il 26 dicembre 1996. Stava singhiozzando e disse: ‘Ho ferito una bambina.’ Ha detto Vail al tabloid britannico, che ha cercato di dirlo alla polizia di Boulder in quel momento, ma non è riuscito a passare.
Continua Vail: “All’epoca Gary portava con sé pennelli, del genere trovati in cantina, quando era studente d’arte e studiava come fare i nodi. Conservava dei disegni dei nodi e li ha inseriti nei suoi collage.
Ma la sprovveduta polizia di Boulder ad oggi non sembra del tutto convinta della colpevolezza di Oliva.
Alla base dei sospetti, oltre alle dichiarazioni scritte del pedofilo, ci sarebbe la comprovata e dichiarata attrazione malata di Oliva per quella creatura alla quale, i numerosi défilé dove veniva agghindata da vamp, davano un’aria da imberbe seduttrice. Nella sua mente perversa, quell’ immagine, aveva assunto la sembianza di una tormentata ossessione.
Ci si auspica che su questa triste vicenda si possa mettere la parola “Fine”.
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