
Complesso di Didone
29/10/2016
Sindrome da alienazione genitoriale
02/11/2016La sindrome di Medea riguarda le madri che uccidono i figli.
Il termine “sindrome (o complesso) di Medea” è stato utilizzato per la prima volta dallo psicologo Jacobs alle fine degli anni ’80 per indicare il comportamento di una madre (nel mito, Medea, la figlia della maga Circe) che mirava a distruggere il rapporto fra il padre (nel mito, Giasone) e i figli, soprattutto in seguito a una separazione conflittuale.
Il mito di Medea
Medea è figlia della maga Circe, dalla quale eredita i suoi poteri magici. È profondamente innamorata di Giasone a tal punto da aiutarlo ad impossessarsi del vello d’oro tradendo la sua famiglia.
Arriva, infatti, ad uccidere il proprio fratello affinché Medea stessa, il suo amato e gli Argonauti possano fuggire senza essere ostacolati da suo padre, poiché impegnato a raccogliere i resti del figlio.
Medea sposa poi Giasone e si trasferisce a vivere con lui a Corinto. Dopo alcuni anni, tuttavia, Giasone si innamora di un’altra donna molto più giovane di Medea. Ripudia, quindi, Medea per sposare Glauce, figlia del re di Corinto, Creonte, in modo da avere diritto di successione al trono.
Medea, distrutta dal dolore, prepara la sua vendetta: fingendosi rassegnata alla perdita del suo amore, manda un vestito avvelenato alla futura sposa come dono di nozze, la quale una volta indossato muore tra atroci dolori.
Accecata dall’odio, Medea uccide anche i propri figli, in quanto discendenza di Giasone, eliminando ogni legame con l’ex amato. Per Medea l’unico modo per affrontare un simile dolore e superare l’umiliazione di essere stata ripudiata è proprio quello di uccidere i propri figli per vendicarsi dell’ex partner.
La sindrome di Medea
La sindrome di Medea indica una condizione in cui la madre uccide, anche psicologicamente e non necessariamente fisicamente, il proprio figlio come atto di vendetta nei confronti dell’altro genitore.
Questa interpretazione metaforica viene coniata nel 1988 dallo psicologo Jacobs il quale, portando su un piano figurato l’infanticidio, sostiene che la sindrome di Medea sia: “il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali.”
Secondo la lettura di Jacobs ha a che fare con l’alienazione genitoriale, definita dallo psichiatra R. Gardner come “un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato).”
Si tratta dunque di fattori che vengono scatenati da una crisi di coppia portata alle estreme conseguenze, per cui il genitore strumentalizza il figlio per vendetta e in cui la triangolazione familiare e la rabbia cieca sono il sintomo di una difficoltà a elaborare ciò che sta avvenendo.
Questo provoca talvolta tragiche conseguenze come l’infanticidio.
Perché il proprio figlio
L’infanticidio non è determinato da una singola ragione, ma più e tutte insieme lo causano. Entrando nello specifico, tra le possibili cause della sindrome di Medea troviamo fattori:
- individuali: età, livello d’istruzione, capacità intellettive e cognitive, salute mentale e fisica, presenza di esperienze traumatiche, legame affettivo-emotivo o no con il figlio.
- familiari: famiglia d’origine della donna, presenza di altri figli o gravidanze ravvicinate.
- situazionali: condizione economica-affettiva, tocofobia (paura del parto), gravidanza difficile o in cui c’è stata violenza ostetrica, temperamento o problematiche fisiche del neonato, depressione post parto o psicosi puerperale.
Inoltre, una madre vive una serie di micro-lutti:
- il momento della nascita, perché con questo evento c’è il distacco definitivo a livello fisico con il bambino portato in grembo per nove mesi.
- il “sostituire” il bambino fantasticato durante la gravidanza con il bambino reale (quanta più idealizzazione la madre ha creato, tanto meno sarà in grado di accettare ciò).
- l’idealizzazione della maternità e l’immagine di sé come madre.
I Sintomi della sindrome
Tra i sintomi che si possono riscontrare nella sindrome di Medea, possono esserci:
- aggressività
- stato confusionale
- tendenze suicide
- impulsività
- conflitti di coppia
- senso di solitudine
- rabbia e frustrazione
Questo breve elenco di sintomi fa intuire che una condizione come il complesso di Medea abbia alla base la negazione o la mancata cura di una condizione psichica estremamente fragile, che deve essere ascoltata per permettere un intervento tempestivo che scongiuri conseguenze gravi e irrimediabili.
Le statistiche ci dicono che sei bambini su dieci sono uccisi dalla madre. C’è anche da dire che molti decessi di bambini sono archiviati come accidentali o dovuti a cause naturali. Inoltre, vi sono centinaia di tentativi non riusciti.
Pare che l’infanticidio, in Italia, raggiunga numeri allarmanti: nelle statistiche sull’infanticidio in Italia che si leggono nel dossier di Eures, si evidenzia che “i figlicidi sono stati in totale 68 – nel dettaglio 18 nel 2015, 25 nel 2016 e 25 nel 2017. Quindi, dal 2000 al 2017 nel nostro Paese 447 bambini sono morti per mano dei genitori o familiari”.
La donna infanticida
Lo psichiatra Joseph C. Rheingold, nel suo testo del 1967 The mother, anxiety e death: the catastrophic death complex, scrive di “essere rimasto colpito dal numero di donne che, quasi con indifferenza, ammettevano il loro desiderio di abusare, violentare, storpiare o uccidere il proprio bambino. Non ho mai conosciuto un uomo con una tale animosità, sangue freddo, nei confronti dei bambini.”
Facendo un salto temporale all’indietro, la figura della donna è considerata inferiore e malvagia anche da Cesare Lombroso ches crisse La donna delinquente, la prostituta e la criminale, spiegando così l’infanticidio e la sua correlazione con l’istinto materno.
Il sociologo Guglielmo Ferrero sostiene che “Questa mancanza di sentimento materno diventa comprensibile se riflettiamo, da un lato, all’intervento delle caratteristiche maschili che impediscono alla criminale di essere più di una mezza donna, e dall’altro lato, a quel suo amore della dissipazione necessariamente antagonistico con i costanti sacrifici, richiesti ad una madre.
Il suo senso materno è debole perché, psicologicamente e antropologicamente, essa appartiene più al sesso maschile che a quello femminile.”
La percezione della donna, fortunatamente, è cambiata nel tempo. Madri che uccidono. Dal dramma di Medea alla psicopatologia del quotidiano è il libro scritto dallo psichiatra Alessandro Meluzzi, che indaga proprio i temi dell’istinto materno e dell’interpretazione che la società fa di un tale efferato atto, partendo dal mito di Medea per arrivare ai casi di madri che uccidono i figli in Italia.
Nell’ambito della psichiatria e della psicologia restano oggetto di indagine le cause della sindrome di Medea: la percezione di estrema “trascuratezza emotiva” che la persona subisce, porta a un desiderio di vendetta che può avere tragiche conseguenze.
Di questo tema parla il libro Il complesso di Medea. Un istinto oscuro, scritto dallo psicologo e psicoterapeuta Luciano Masi, che indaga la sindrome di Medea, l’infanticidio e il figlicidio aprendo però, in conclusione, a una possibilità di recupero, emotivo e psicologico della donna.
Cause del gesto
Una madre assassina, nella propria infanzia, probabilmente ha sviluppato uno stile di attaccamento insicuro o di tipo disorganizzato con la propria madre. Ciò però non significa che una donna o una bambina con attaccamento insicuro è o sarà una madre assassina del proprio bambino.
Questo perché bisogna tenere conto dell’influenza delle variabili quali ambiente, esperienze e vissuto emotivo. Quindi è plausibile che ci potrebbe essere un maggior rischio con questo stile di attaccamento, ma questo da solo non comporta nulla.
Alcuni studiosi ritengono che ci sia un attaccamento tra madre e bambino, ovviamente non sano, anche in caso di infanticidio. Una mamma, infatti, nel momento di uccidere il figlio, si arroga il diritto di vita o di morte su di lui, perché dice “Io l’ho generato, io posso ucciderlo”.
Altri invece sostengono che non c’è assolutamente attaccamento, perché altrimenti entrerebbe in gioco l’istinto materno a ” bloccare” il gesto mortale.
Questa tesi, però, non tiene conto dei casi di madri con psicopatologie gravi o tossicodipendenze. In ogni caso, anche in assenza di psicopatologie o tossicodipendenze, una madre può decidere in maniera razionale di togliere la vita al figlio.
Per una sorta di “sicurezza” collettiva e individuale, si è portati a sostenere che una madre uccide il proprio figlio è una madre che “non sta bene con la testa”. Affermare questo significa che un evento così efferato è innanzitutto un caso limite ma, al contempo, può essere categorizzato e “giustificato” in maniera razionale e tollerabile.
Purtroppo, però, ci sono tante cause che sono razionali e al contempo assurde.
Spesso vi sono, in alcuni episodi tragici, campanelli d’allarme che vengono ignorati o sottovalutati. In alcuni casi di infanticidio si può tentare una previsione. Prevenire invece è difficile e complesso, ma non impossibile. Sarebbe importante non sottovalutare e anzi comprendere il disagio psichico che può portare a un infanticidio.
Depressione e baby blue
Può capitare che una depressione post-parto non riconosciuta, non curata, possa pian piano andare a colpire la fragilità della madre e possa trasformarsi nella sindrome di Medea.
La depressione post partum è a tutti gli effetti una depressione unipolare che si distingue dalle forme più classiche di quest’ultima essenzialmente per il particolare periodo di insorgenza (da un mese a un anno dopo la nascita del bambino) e per alcune specifiche componenti alla base del suo sviluppo, soprattutto sul piano ormonale e psicoemotivo.
I segnali e i sintomi che devono far sospettare la presenza della depressione post partum, invece, sono del tutto sovrapponibili a quelli della depressione unipolare.
Saper interpretare le proprie sensazioni e reazioni psichiche dopo la nascita del bambino è fondamentale per capire se si sta attraversando un comune “baby blues”, che si risolverà da solo in poco tempo, o se si può trattare di una vera depressione post partum, da sottoporre all’attenzione del medico e da trattare in modo specifico.
Il baby blues o maternity blues (dove ‘blues’ sta per malinconia) è una condizione para fisiologica transitoria e reversibile cui la donna va incontro nella settimana successiva al parto in circa il 70/80% dei casi, determinata principalmente dai cambiamenti ormonali tipici del post-partum.
Tra i sintomi del baby blues rientrano reazioni emotive molto vistose da parte della mamma, quali:
- pianto improvviso e immotivato;
- umore instabile;
- sensazione di inadeguatezza;
- tristezza non giustificata;
- irritabilità.
È importante sottolineare che questi disturbi hanno 2 caratteristiche ben precise: insorgono appena dopo l’evento del parto (tendenzialmente nei 3/4 giorni successivi) e sono transitori, cioè durano da pochi giorni fino ad un massimo di 1 o 2 settimane.
Il baby blues infatti è assolutamente reversibile, scomparendo una volta che l’equilibrio ormonale della donna si è riassestato.
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