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01/02/2017La sudditanza psicologica è quella che rende schiavi del sistema.
Ogni società, organizzazione o gruppo è una piramide di ruoli che crea sudditanza, chi sta al vertice ha la funzione di leader, di capo, di direttore e dirigente, l’uso del potere e della dominanza può variare in maniera significativa a seconda della umanizzazione e tolleranza della società stessa, aperta alla comunicazione o chiusa nella mera funzione di dominio.
In alcuni tipi di aggregazioni la dominanza ed il potere del leader sono tali da impedire ogni idea contraria o altra forma di contestazione, vi sono invece gruppi in cui esiste una dualità del rapporto di scambio e di comunicazione sia dall’alto che dal basso.
La seconda sarebbe preferibile perché permette ad ogni soggetto di dare un apporto costruttivo e migliorativo alla società stessa.
Ma questa società ideale rimane una mera teoria. Di fatto tutti i gruppi creano sudditanza.
Il fenomeno della sudditanza
Il fenomeno della sudditanza psicologica ritorna negli scritti di Eric Berne che, nella sua visione dell’analisi transazionale, trattata in particolare in “Stati dell’Io”, identifica un modello tripartito, composto dallo stato dell’Io genitore, dell’Io bambino e dell’Io adulto.
Il primo stato è quello che impone regole e valori, il secondo è quello che risolve i problemi e svolge una mansione al meglio delle proprie possibilità e il terzo è quello dell’intuito e della libera espressione creativa.
La sudditanza non è solo tipica della società, essa entra in gioco ancor più brutalmente nel mondo del lavoro, dove le gerarchie (per lo meno nelle organizzazioni aziendali meno moderne) sono studiate proprio per indurre l’opprimente stato d’animo della sudditanza, ponendo in costante soggezione colui che, nel tempo, considerando se stesso inferiore, considera gli altri intorno a sé, superiori non solo per ruolo o per posizione, ma addirittura per statura morale e intellettuale.
Nonostante, spesso, essi non abbiano reali capacità atte a giustificare tale pretesa (se mai si possa giustificare un rapporto di superiorità / inferiorità tra essi umani).
E Hanna Arendt avrebbe forse aggiunto che, il suddito ideale, è colui per il quale una distinzione tra realtà e finzione cessa di esistere.
Ed è esattamente questo il meccanismo alla base della sudditanza psicologica, laddove un’alterazione della coscienza travisa il mondo intorno a sé, attribuendo più o meno valore, a se stesso e agli altri, a seconda che sia in gioco l’atrofia o l’ipertrofia dell’Io.
Perché il contraltare della sudditanza psicologica è proprio la megalomania, quel malsano e patogeno gigantismo dell’Ego, che tutto sminuisce e l’altrui valore disconosce.
In entrambi i casi di sudditanza, un grave deficit di realismo e di autovalutazione.
Esiti della sudditanza
Di fatto, la sudditanza psicologica, invece di ordinare gerarchicamente le funzioni, slega l’ambiente di lavoro, frena la fiducia, rallenta la sinergia, erode la sintonia, fino a creare invisibili muri che, frammentando la scala verticale, allontanano le persone, ridotte a essere ruoli e incarichi e numeri, costituendo un “noi e loro” classista e divisivo, tipico dell’ambiente industriale del secolo scorso, che con il secolo non ha cessato d’essere.
Ma la sudditanza psicologica è riscontrabile anche in famiglia, tra amici, persino nel mondo dell’istruzione, dove l’arroganza di alcuni lede sistematicamente e quotidianamente la stabilità psicologica degli altri, minandone alla base ogni residuo di stima in se stessi, di credenza positiva e di convinzione potenziante.
Lo stesso vale parlare di sudditanza psicologica nel caso di una donna che, seppur continuamente picchiata o abusata dal marito, non solo omette di denunciarlo ma, addirittura, ne difende le scelte e i gesti violenti.
Parliamo, in fin dei conti, di una suggestione tout court, tanto indotta dall’esterno, quanto assunta dall’interno, in un processo deleterio e disastroso che rade al suolo ogni dignità e confronto.
Eppure, basterebbe fortificare la propria autostima, nutrendo la fiducia in se stessi, quella sana e motivata, basata sui risultati e sull’amore sincero, per non cadere in soggezione e dipendere, nel bene o nel male, dal confronto/scontro con gli altri.
E sarebbe altresì utile imparare a distinguere la persona dal suo ruolo, per accettare le differenze di livello funzionale senza subire differenze discriminatorie e lesive del piano umano, per non finire schiacciati dal carico verticale e verticistico che, col suo tonnellaggio, tutto schiaccia e ogni cosa spegne.
Ciò ci porterebbe a interagire con gli altri, sul piano della costruzione e del valore, sulla base di tre imprescindibili apprezzamenti: quello per noi stessi, quello per l’altro e quello per la relazione innescata tra le parti in causa.
Solo così potremo attribuire il giusto valore e il rispetto dell’identità, tanto a noi stessi, quanto agli altri in relazione con noi, favorendo una produttiva interazione che pone tra pari, seppur con ruoli (anche gerarchici) diversi.
Ed è da questa sana interazione che può davvero scaturire quell’equilibrio di cui tutti abbiamo bisogno, imprescindibile per un corretto sviluppo umano e personale, del singolo e del gruppo, del team e della famiglia, per non cadere in inutili sudditanze e per non trascendere nell’opposta e ugualmente catastrofica supervalutazione di noi stessi, determinando un’atrofia dell’io e dell’amor proprio, nel primo caso, e un’ipertrofia dell’autovalutazione e dell’Ego, nel secondo.
Ci sono due personaggi che impersonano magnificamente il concetto di sudditanza psicologica.
Il cappotto di Gogol
“Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’ “è una celebre frase di Fëdor Michajlovič Dostoevskij con la quale lo scrittore russo voleva sottolineare la profonda influenza che Gogol’ aveva esercitato sulla letteratura a lui successiva, quella del cosiddetto “realismo socialista”.
Nikolaj Vasil’evič Gogol’, detto Gogol’ appunto, fu un geniale maestro del realismo russo, si distinse per la grande capacità di descrivere situazioni comico-mostruose sullo sfondo di una desolante mediocrità umana.
Nel suo racconto “Il Cappotto”, Gogol’ ci propone una trasfigurazione fantastica del reale nella tragica e grottesca storia di un impiegato umile e sottomesso, Akakij Akakievič, morto di crepacuore per essere stato derubato del cappotto, sognato e accarezzato come aspirazione unica di vita, dopo sacrifici inauditi, come l’abolizione della candela la sera o la rinuncia al pasto quotidiano.
Un moderno Akakij Akakievič è il ragionier Ugo Fantozzi, l’impiegato servile, perennemente umiliato dal capo e deriso dai colleghi, incapace di esprimere idee e pensieri personali, che segue il branco pedissequamente senza alcuna contestazione, anche se le attività fatte non sono di suo interesse.
Ugo Fantozzi
Il ragionier Ugo Fantozzi è il personaggio tragicomico ma geniale per la sua realtà e veridicità, ideato da Paolo Villaggio, portato in televisione ma corrispondente ad una reale vita vissuta.
Villaggio interpretando Fantozzi racconta una parte della sua esistenza in cui ebbe a notare e subire le medesime angherie del potere dirigente più tiranno che imprenditore, un sistema che ancora sopravvive soprattutto nelle società molto grandi dove c’è un divario incolmabile tra coloro che lavorano alla base e quelli che comandano ai vertici.
Paolo Villaggio mentre fu dipendente come impiegato all’Italsider di Genova fu testimone di parecchi episodi di servilismo ed arrivismo, fatti che sono stati utilizzati per creare il personaggio televisivo.
Fantozzi rappresenta dunque l’individuo che patisce il ruolo tirannico non solo del capo al vertice ma anche quello dei colleghi, che lo costringono ad una vita di inettitudine, incapacità e frustrazione.
Il povero ragioniere si sente vittima di coloro che fanno parte del suo mondo, non solo quelli del luogo di lavoro ma anche la famiglia vista come dei mostri che non hanno alcuna qualità bella e piacente.
Fantozzi vorrebbe andare contro il sistema ma ha paura e teme le ritorsioni; perciò, ancora prima di agire si castra esso stesso in una vita ed in una condizione lavorativa che non apprezza e che non dà soddisfazione.
Il suo adattamento è la fonte della sua protezione e della sua sicurezza, il sistema collaudato e funzionante garantito dall’intera collettività sono il suo limite ma anche la forza che assicura il lavoro, il sostentamento e l’immagine di lavoratore, marito e cittadino partecipe alla collettività.
Fantozzi collabora alla costruzione di un puzzle fatto di atteggiamenti e comportamenti che si intersecano e si assecondano per comporre il sistema quadro della realtà, che seppur forzata è comunque la sua realtà.
Non c’è bisogno di essere dei Fantozzi per essere sudditi di un potere, bastano pochi gesti, quotidiani, ripetuti anche se non condivisi, perché l’impossibilità di espressione e di critica costringono l’individuo ad un ruolo succube che lo priva della sua libertà e personalità.
Le realtà raccontate da Paolo Villaggio non sono così distanti dalle realtà che ci stanno intorno e che vediamo ogni giorno, ma siamo talmente abituati a tale sistema che non ci irrita più.
L’unico modo per cambiare questi sistemi dittatoriali che creano sudditanza psicologica e mentale è uscire mentalmente dal gruppo e costruire una propria individualità fatta di opinioni personali, idee private e comportamenti che siano espressione della nostra personalità così come la sentiamo e non come gli altri ce la impongono.
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19 Comments
Penso che a volte possa rivelarsi utile anche una denuncia giudiziaria mirata che imponga a chi attua malevolmente il suo dominio (talora con offese) in modo tale da ristorare il danno subìto facendo pure mettere mano al portafoglio (attraverso testimoni oppure attivando la funzione di registrazione sul telefonino che ormai tutti hanno con sè). Credo che tale funzione, dato il fine di tutela di se stessi e principalmente la registrazione di se stessi, oltrepassi pure la privacy (magari opportunamente si identifichi con certezza data, ora e generalità)
Ogni fatto che realizza le condizioni oggettive e soggettive per la sussistenza di un reato diventa penalmente perseguibile, occorre però fare ben attenzione a tutti i presupposti, che devono sussistere con un alta certezza e senza ombra di dubbio, da qui la possibilità di denunciare qualunque fatto rientri nell’ambito penale.
E sono oltremodo d’accordo che noi tutti, anzichè lamentarci e farci schiacciare da certe situazioni, dovremmo avere più coraggio e fare più denunce, perché solo attraverso di esse si consente al sistema di muoversi verso una tutela.
Senza una denuncia o un esposto gli enti pubblici e le autorità preposte sono fermi e non hanno la possibilità pratica e formale per agire.
Quindi mai vittime ma sempre attori della nostra vita.
Marilena
Quindi è senza dubbio la storia di un solo individuo (tratto anche dalla realtà personale vissuta dell’attore) contro una moltitudine che a tutti gli effetti configurano un’associazione con finalità antisociali e oppressive. Esistono borghesie non mafiose?
Si parla di piccole o grandi società/gruppi quando hanno lo stesso potere politico, e non necessariamente di stampo mafioso…
Guardiamo per esempio i tanti condizionamenti non palesi ma occulti e molto ben celati di certe notizie, della pubblicità, delle critiche degli altri: chi si adegua soccombe, chi prova ad essere se stesso uscendo dal modo comune di pensare viene additato, giudicato ed infine emarginato.
Lo viviamo tutti i giorni a cominciare dalla famiglia sino ai luoghi di lavoro.
Tutto è condizionamento e troppo spesso negativo e non rispettoso dell’individualità di ognuno di noi.
Essere soggetti liberi e pensanti non è facile, richiede molto coraggio e capacità di resistenza alle avversità indotte.
Marilena
«Essere soggetti liberi e pensanti non è facile» … il genere umano rientra nella categoria animale…vi sono animali che organizzano il gregge, altri il branco, ecc. Per esempio nel branco vi sono il capobranco e gli accoliti con annesse le relative compagne le quali anch’esse si adeguano, ognuno secondo il gradino definito ed assegnato dal gruppo. Nell’uomo già in tenera età vengono definite queste sudditanze e vengono assegnati anche numeri affinchè ognuno rimanga confinato al proprio “gradino” con il tacito accordo di mantenere la relativa sudditanza fondata principalmente sul passaparola. Non è certo facile andare contro a tutto ciò anche perché nel condizionamento si è rassicurati. Nell’offrire, sovente, una tranquillità di vita sociale, la sudditanza psicologica non compromette né sfalda la struttura. Spesso si definiscono pseudo-regole fasulle quasi si volesse insegnare la vita allo stesso Creatore, ma ciò viene fatto per mantenere in essere la struttura con il consenso e l’avvallo di tutti i suoi componenti. No, non è facile…talora, se il gruppo ravvisa il pericolo che qualcuno non voglia mantenere il gradino virtualmente assegnato, si arriva persino ad affermare, con il passa-parola, che, ad esempio porti sfortuna…fino al punto di condizionare a costui la vita stessa: si pensi all’ottima Mia Martini, ma pure altri. Cordialità.
Grazie Franco di averci donato il suo punto di vista sull’argomento.
Saluti
Marilena
@falafranca…ho letto attentamente tutto. Io credo che nella vita, in generale, non vi siano né vinti né vincitori (a maggior ragione fra uomo e donna: altrimenti una categoria prevarrebbe sull’altra), tutto dipende da che cosa guarda la maggioranza per dare delle pseudo-definizioni. Ognuno di noi, nel suo piccolo, cerca di convincere ed orientare l’altro (pubblicamente, con il dialogo, sui social, ecc.), così da distogliere lo sguardo da se stessi e soprattutto da ciò che in noi non va ed appare agli altri come negativo. Da ciò “qualcuno è più forte degli altri” e come tale appare il migliore (o la migliore) che si possa trovare in società. Io credo, tuttavia e per i motivi anzidetti, non sia proprio così e che una volta corra la lepre ed una volta corra il cane; così da soddisfare che non vi siano né vinti né vincitori. Penso inoltre che se in un’età in cui non sia stato possibile decidere il da farsi ed in cui una delle categorie abbia optato per la lepre (però in reciproco accordo), penso, dicevo, che di comune accordo si sia aperto un “conto” che prima o poi dovrà essere sanato (sempre in comune accordo, ovunque ci si appoggi, altrimenti viene meno il principio di cui sopra). Unica cosa su cui poter giocare è il quando ciò avverrà, ma se le condizioni ci sono tutte non rimane che adeguarsi…un pò come quando giunge il momento della dipartita e tutti vorremmo ritardarlo in qualche modo: se il momento è quello, non esistono né se né ma…e ricorda, se vuoi vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
Ha mille ragioni caro signor Anonimo,
ma deve anche tener conto che non tutti siamo uguali e non tutti reagiscono alle sofferenza ed ai traumi nello stesso modo
provi ad ascoltare anche chi ha un carattere ed un pensiero diverso dal suo, si accorgerà come la sofferenza ha mille sfacettature spesso imprevedibili ed inevitabili
saluti
Marilena
Pubblico il suo pensiero perché tutti lo possano leggere
saluti
Marilena
Grazie di aver lasciato in questo blog il suo pensiero
saluti
Marilena
…traumi e sofferenza sono perciò da “definire”, orientando la maggioranza per ottenere un dato valevole per i più (non per tutti). Un po’ come per ciò che sia bene o ciò che sia male. Le religioni e soprattutto i codici della legge terrena si sono spesso espressi a riguardo, ma qualcuno (pochi che tuttavia devono accettare ciò che consegue dal loro operato) non sarebbero dello stesso avviso. Almeno io comprendo così. Un saluto.
…si consideri però che non tutte le religioni sono uguali e nemmeno tutti gli stati hanno le stesse regole (per es. qualcuno afferma che la guerra sia giusta e talune religioni sembra che concedano corretto l’omicidio per infedeltà, oppure in taluni stati è lecita la pena di morte, ecc.). Esistono poi anche i tribunali internazionali per i diritti umani e molte altre cose. Valuti un pò tutto @Anonimo. Sulle decisioni a maggioranza e sul proposito di orientarle non credo abbia tutti i torti pure se parliamo di sudditanze psicologiche.
Grazie di aver esposto il suo pensiero
saluti
Marilena
Si legga bene, il fatto rimane, certo: è un fatto. Le dovute conseguenze pure (un po’ come se io uccidessi il primo che passa in strada, dubito che sarei assolto solo affermando che tanto in vita non torna più). Poichè le “cose” non funzionano mai da sole, la mia impressione è che non vi siano né vinti, né vincitori. Oppure mi sbaglio? Tuttavia ed in ogni modo: tutto dipende da ciò che è preso a riferimento per determinare chi vince e chi perde (rimanendo però sul fatto, inteso come riferimento, ritengo che sia la stessa “Vita” ad aiutare a porre rimedio in quello che lei stessa ha determinato nell’incoscienza altrui).
Buongiorno
non trovo un filo logico che possa legare il suo pensiero all’argomento dell’articolo
se volesse essere più chiaro in modo da consentirmi, e consentire a chiunque legge, di poter appoggiare o meno il suo pensiero e magari anche di risponderle
saluti
Marilena
Presumo che il lettore/commentatore “@io” intendesse: ritengo (ma soprattutto spero) che sia la stessa vita a porre rimedio in caso di sudditanza psicologica occorsa, poiché sovente è la vita stessa ad averla determinata nel soggetto che ne è stato colpito inconsciamente. Se ne avesse avuto coscienza, sicuramente si sarebbe opposto-a poiché la violenza psicologica iniziale spesso,da sopraffazione ritenuta lecita, sfocia in reati molto espliciti e sicuramente perseguibili con più veemenza: violenza privata, minaccia, atti persecutori, lesioni, maltrattamenti, ecc.(supportabile anche con referti medici). Tuttavia (sempre ammettendone la coscienza) attraverso la corrente giurisprudenza è possibile dar corso anche in fase iniziale con sms e registrazioni ricevute, con foto esplicite, con testimoni ecc. Rimane comunque un argomento molto delicato da trattare (va innanzitutto accertato), in particolar modo ancor prima della sua possibile estensione…la difficoltà è sicuramente comprensibile.
Grazie della sua precisazione.
E’ sempre opportuno, quando si scrive su un blog pubblico, che il pensiero sia espresso nella maniera più chiara possibile.
Quanto al suo gradito pensiero posso, per esperienza, affermare che attendere una qualche forma di giustizia è il più delle volte un’aspettativa vana, meglio allontanarsi da ciò che ci opprime nella maniera più indolore possibile.
saluti
Marilena
…speriamo nella NON applicazione del “fai agli altri prima che gli altri lo facciano a te” e che la classica versione sia sempre in auge, il tutto senza aspettarsi alcuna forma di giustizia. La sudditanza psicologica viene in taluni casi ritenuta lecita (per es. tra genitori e figli, tra insegnanti ed allievi, tra professionisti e non, ecc.). Talora potrebbe apparire come una scusante, ma nell’approfondire si rilevano motivazioni reali che però non rendono lecito quanto definito in terra come “reato”.
Grazie per la sua precisazione el mundo, la pubblico molto volentieri.
Per quanto riguarda quelle forme di sudditanza sociali a cui fa riferimento non posso che aggiungere che esse sono inevitabile per avere un ordine sociale, diversamente si creerebbe il caos.
saluti
Marilena