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Storie di bambini allevati dagli animali

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Pubblicato da Marilena Cremaschini il 31/01/2023
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Tag
  • bambini allevati da animali
  • bambini come animali
  • bambini selvaggi

Sembrano storie impossibili, se non addirittura assurde, eppure sono storie vere, di bambini realmente vissuti e cresciuti tra gli animali.

Li chiamano “Bambini Selvatici”, o “Enfant Sauvage” (in francese: bambini selvatici) o “Feral Child” dall’inglese, o anche bambini-lupo perché anziché essere allevati dai loro genitori, per svariati motivi di abbandono, sono stati adottati ed allevati da degli animali.

Di seguito le loro storie[1].

Victor

 

Di lui non vi sono foto ma solo il disegno qua sopra che lo riproduce.

Uno dei primi casi registrati nella storia, di cui si abbia una traccia scritta, risale al 1798 quando fu catturato nei boschi francesi dell’Avevron un ragazzino selvaggio di 12 anni, dopo essere vissuto molti anni in isolamento, nello stato più selvaggio e, per questa ragione, del tutto incapace di comunicare e relazionarsi a qualsiasi livello con i suoi simili.

Questo “ritrovamento” suscitò un vivo interesse fra i tardo-illuministi perché il ragazzo selvaggio era ai loro occhi un caso ideale per studiare le basi della natura umana, per stabilire che cosa caratterizza l’uomo e quale ruolo gioca la società nello sviluppo del linguaggio, dell’intelligenza e della morale.

Victor, così fu chiamato, non era un bambino nel senso proprio del termine, perché aveva un corpo del tutto adulto e sviluppato, ma l’assenza di una educazione aveva prodotto in lui non solo abitudini e modi da animale, bensì anche sensi e fisiologia molto diversi da quegli umani.

Nonostante tutti gli sforzi, fece però dei progressi molto limitati. Victor imparò abbastanza presto a comunicare con una sorta di pantomime (per esempio, se voleva uscire portava il cappotto e il cappello al suo tutore), ma non riuscì mai a parlare.

La sua storia è la dimostrazione del fatto che la natura umana e il linguaggio non sono parte integrante della nostra genetica e che, perciò, non possono essere “risvegliati” in qualsiasi momento.

 

Oxana Malaya

Il secondo caso è quello di Oxana Malaya, la bambina cresciuta da un gruppo di cani.

Siamo nel 1983, in Ucraina, dove la povertà rende il valore della vita umana qualcosa su cui si può soprassedere. La storia di questa bambina è fra le più tristi conosciute.

Figlia di genitori alcolizzati, vittima delle loro incurie, un giorno rimase chiusa fuori casa e, per non morire di freddo, alla sola età di 3 anni, fu spinta dal suo istinto fra i boschi vicino casa dove fu accolta da un branco di lupi.

Nessun provvedimento contro i genitori che non si curarono neanche di fare la denuncia per la sua scomparsa. Fu così che la piccola crebbe dimenticandosi di essere un’umana, dimenticandosi anche l’esiguo linguaggio imparato.

Fu ritrovata cinque anni dopo da un cacciatore, che la vide correre a quattro zampe e ringhiare come un animale, interessata solamente come cibo alla carne cruda.

Venne riportata alla sua famiglia che, come se non bastasse, la legò a una catena in giardino “per nulla contenta di dover crescere un animale dalle sembianze umane”.

L’unico amore che conobbe la bambina fu quello di alcuni cani che, vedendola indifesa, iniziarono a proteggerla e a prendersi cura di lei, dandole il calore necessario per poter sopravvivere.

Oxana ha appreso le movenze e gli atteggiamenti dei cani e dei lupi, comunicava abbaiando, invece di piangere guaiva, camminava a quattro zampe e ringhiava.

Gli assistenti sociali, dopo la nuova segnalazione, hanno tolto la bambina alla madre per affidarla a un istituto, nel quale hanno cercato di istruirla come umana ma, fino ai 16- 17 anni, ha continuato ad avere abitudini canine.

Oggi ha superato i 30 anni e ha ancora difficoltà ad integrarsi totalmente nella società e spesso scappa dalla vita cittadina per tornare alla sua vera casa, ovvero il bosco.

A volte le vere bestie non sono gli animali ma l’uomo.

 

Marina Chapman

Un altro caso davvero famoso fu quello di Marina Chapman, allevata dalle scimmie.

Una storia che sembra più un romanzo, ma è la vita realmente vissuta da questa donna che negli anni ’50 venne rapita dalla sua casa in Colombia, per essere poi abbandonata nella giungla e allevata da un gruppo di scimmie cappuccino.

Grazie a questa “famiglia”, con cui vive per 5 anni, impara ad arrampicarsi sugli alberi e a catturare uccelli e conigli a mani nude.

Ma la sua straordinaria vita ha risvolti altrettanto avventurosi, quanto drammatici: un giorno viene ritrovata da una coppia di cacciatori, che, invece di metterla in salvo, la vende in cambio di un pappagallo a un bordello nel nord-est della Colombia.

Lì viene picchiata ed avviata alla prostituzione, ma la sua volontà e la sua capacità di sopravvivere hanno la meglio: in breve riesce a fuggire saltando da una finestra.

Da quel momento comincia a vivere per strada campando di espedienti, fino all’età di 17-18 anni, quando una famiglia colombiana la prende con sé come serva.

È in quel periodo, quando le chiedono il suo nome, che la ragazza, da un anfratto della memoria, tira fuori il nome Marina Luz.

Riuscì a raccontare della sua drammatica e, per certi versi, straordinaria vita al marito solo nel 1977 e, dalla sua incredibile rivelazione, nacque il libro che sconvolse il mondo.

 

Amala e Kamala

 

Altra storia, altro caso, questa volta documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India.

Nel 1920 il reverendo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi.

Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali. Vide uscire i lupi e subito dopo entrò nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe.

Una aveva circa 8 anni, l’altra solo un anno e mezzo. Lavate e ravvivate, Amala e Kamala assunsero un aspetto più umano, ma l’opera di “addomesticazione delle bambine-lupo” era solo all’inizio.

Sotto quasi tutti gli aspetti, le bambine apparivano due selvagge: strisciavano sulle mani e sulle ginocchia, ringhiavano rabbiosamente agli esseri umani e avevano paura della luce del giorno mentre di notte ululavano alla luna.

Volevano solo carne cruda e frugavano tra i rifiuti per trovare le interiora di pollo o altri resti animali da mangiare. Dopo un anno, le “bambine-lupo” si ammalarono gravemente, e nonostante gli sforzi del medico, Amala, la più piccola, morì di una malattia renale.

Nessuna delle due aveva mai mostrato la più piccola traccia di emozione prima di allora, ma Kamala pianse alla morte della compagna e, da allora, subì un grande cambiamento.

Lentamente assunse caratteristiche più umane, cominciò a vestirsi da sola e a imparare qualche parola. Prese anche a camminare eretta per brevi distanze. La ragazza, però, morì a 17 anni della stessa malattia che pose fine alla vita della “sorella”.

 

John Ssabunnya

Un altro caso più recente e, diciamolo, più felice nel suo epilogo, di ragazzo selvaggio, è quello di John Ssabunnya[2]. John era un bambino ugandese, nato nel villaggio di Kabonge che all’età di tre anni, sul finire degli anni ‘80, vide suo padre uccidere brutalmente sua madre. Secondo una versione maggioritaria, terrorizzato, il bambino sarebbe scappato di casa, fuggendo nella giungla; altre versioni riportano che fu il padre, che non voleva prendersi cura di lui, ad abbandonarlo nella natura incontaminata.

Dagli uno ai tre anni dopo (sempre a seconda delle fonti), una donna del villaggio notò una scimmia strana giocare e mangiare con le altre: quella scimmia non aveva la coda! Osservandola attentamente, si rese conto che era un bambino. Avvertiti gli uomini del villaggio della strana scoperta, alcuni membri del villaggio si organizzarono per riportare John alla civiltà.

Dovettero però faticare non poco per catturarlo: le scimmie lo avevano infatti accettato a tutti gli effetti come un membro del branco e lo difesero con pietre, bastoni, calci e morsi prima di mollare la presa. Una volta al villaggio, John fu curato, “tosato” (aveva infatti capelli e peli dove solitamente non ce ne sono, nei bambini della sua età) e riabituato a un’alimentazione normale.

John afferma infatti di non aver mai bevuto durante la sua vita selvaggia; si idratava quindi solo attraverso il cibo che mangiava. Le persone che lo curarono riferiscono che, appena ebbe mangiato una zuppa calda, soffrì di una fortissima diarrea per giorni; si dice che abbia espulso dal suo intestino vermi di oltre mezzo metro.

Dopo aver appreso del caso, il direttore di un orfanotrofio cristiano, Paul Wasswa, ha chiesto alle autorità locali il permesso di adottare il ragazzo e allevarlo insieme alla sua famiglia.

Paul convinse sua moglie, Molly Wasswa, a lasciare che il ragazzo vivesse con loro. Qui imparò a parlare, camminare e ad apprendere abitudini umane; l’educazione ricevuta l’hanno portato a essere, oggi, un essere umano quasi normale, che presenta solo alcune difficoltà linguistiche. John vive ancora in Uganda, e ha rilasciato numerose interviste a giornalisti di tutto il mondo.

Fra le vicende successive che visse, sicuramente la più rilevante è stata quella nel coro dell’orfanotrofio “Pearl Of Africa Children’s Choir”, in cui il bambino fu subito incorporato non appena ebbe imparato a parlare, in virtù della sua bella voce.

Hillary Cook, dentista inglese venuta in Uganda per fornire cure dentistiche ai poveri d’Africa, conobbe la sua storia e si interessò al ragazzo a tal punto che riuscì a organizzare un tour di 3 settimane per il coro in Inghilterra nelle chiese di Merseyside, Glasgow, Sheffield, Londra e Galles.

Ad oggi John, grazie alle sue attività con il coro e alla sua partecipazione alle Olimpiadi Speciali (John è infatti un eccellente atleta, con una particolare predilezione per il calcio), è riuscito a mettere da parte un po’ di soldi con cui si è, tra le altre cose, comprato una casa a Bombo, una città non distante da Kabonge.

Dina Sanichar

Dina Sanichar[3] è stato scoperto da un gruppo di cacciatori tra i lupi in una grotta a Bulandshahr, Uttar Pradesh, India nel febbraio 1867, quando aveva un’età di circa sei anni. Sanichar è stato portato al Sikandra Mission Orphanage dove gli è stato dato il nome “Sanichar” perché è arrivato di sabato. Quando è arrivato all’orfanotrofio, secondo quanto riferito, camminava a quattro zampe e mangiava carne cruda.

Anche se non poteva parlare emetteva suoni simili a quelli di un lupo.

Ha continuato a vivere tra gli altri umani per oltre vent’anni, ma non ha mai imparato a parlare ed è rimasto gravemente compromesso per tutta la vita. Sanichar era tuttavia un forte fumatore.

Morì di tubercolosi nel 1895.

Queste sono storie di bambini che hanno trovato più umanità tra gli animali che tra gli uomini.


[1] Le prime 5 storie sono tratte dal sito: https://www.ilbosone.com/bambini-selvaggi-cresciuti-da-animali/

[2] https://www.luniversitario.it/2021/05/23/bambini-selvaggi/

[3] https://www.wikiwand.com/it/Dina_Sanichar

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Marilena Cremaschini

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